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Associazione Culturale VARZI VIVA
I varzesi sono sempre gli stessi?
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Parigi - dal nostro "corrispondente" Nino Chiappano i varzesi nel loro rapporto
con Varzi
Caro Sandro, questa lettera non è diretta al cugino, bensì al "guru" della tenebrosa setta di
Varzi Viva, di cui ti trovi ad essere il temerario presidente( temerario- ci ricorda il
dizionario- è "chi non valuta il rischio evidente in un atteggiamento o in un comportamento, per
incoscienza o per sprezzo del pericolo").
Essa vuol trasmetterti un enorme punto di domanda che sta sospeso sulla mia testa dopo le mie
recenti capatine al paese e che riguarda Varzi e i varzesi, o meglio i varzesi nel loro rapporto
con Varzi: Varzi, in quanto centro storico e artistico finora trascurato dagli archeologi; i
varzesi quale gruppo umano (non oso dire: tribù) finora ignorato dagli etnologi.
All'uno e agli altri guardo come un figlio di questa terra, ad essa legato geneticamente, ma da
essa fisicamente lontano: dunque, abbastanza partecipe per non essere estraneo, abbastanza
distaccato per non essere complice. La condizione ideale dell'antropologo, insomma.
Ora, la perplessità dell'antropologo può sintetizzarsi così: Varzi si trasforma, ma i varzesi
sembrano essere imperturbabilmente gli stessi. Ti domando: è vero? E se sì, come possono i due
fenomeni andare insieme, anzi conciliarsi?
Punto primo: Varzi si trasforma. Questa constatazione è inoppugnabile. Grazie alla tua guida
illuminata, mi sono aggirato per Varzi e l'ho scoperta quale è oggi, e ho così potuto compararla
all'immagine che mi porto dentro dall'infanzia. Mi ricordo il paesaggio che si scorgeva dalle
finestre della mia casetta sulla Fiera: il recinto di catene a cui venivano attaccati i buoi nei
giorni di mercato, il grande spiazzo alberato, il terreno accidentato, su cui la domenica e il
lunedì si accanivano per ore i litigiosi giocatori di bocce; più in là, i "gabbioni" che ci
proteggevano dalle furie del torrente; e poi lo Stàffora, tumultuosa corrente in inverno, esile
rigagnolo di acqua limacciosa in estate, sterminato spazio di avventure per i Cino e Franco, i
Buffalo Bill, l'Uomo mascherato o il Mandrake, in cui ciascuno di noi si trasformava per la magia
dei fumetti di allora.
Non parliamo poi dei Portici, i "purgon", catacombe maleodoranti, a metà orinatoio, a metà luogo
di incontri clandestini, perennemente avvolti in un'umida penombra, budelli misteriosi entro cui
si inseguivano le bande rivali, "Varzi alta" contro "Varzi bassa", su e giù per quei ripidi
selciati.
Svaniti gli eroi della nostra mitica infanzia, anche questo paesaggio è oggi radicalmente
trasformato.
Nella Fiera, divelte le catene, asfaltato il piazzale, al muggito dei buoi è succeduto il
borbottio dei motori; disfatti i gabbioni e livellato il muraglione, il terreno strappato al
torrente si è ricoperto di un parco ombroso, rifugio di giorno a nonne e mamme coi mocciosi, di
notte a fuggevoli coppiette.
Dalla parte dell'abitato, alle disadorne trattorie coi banconi, dove il venerdì si mangiava la
trippa e risuonavano fino a notte alta i canti rochi dei montanari, sono succeduti rutilanti
ritrovi in cui ondeggiano lunghe fanciulle, serpentine, altezzose e dallo sguardo assente come mannequins.
Quanto ai portici, il mutamento è ancora più radicale e quegli androni un tempo fetidi e quasi
equivoci, oggi ripuliti e restaurati, offrono scorci, degni di certe cittadine della Toscana
medioevale.
In poche parole: il paesone di una volta, rustico, impersonale e, diciamolo, piuttosto ordinario,
si presenta oggi come una cittadina moderna, civettuola, ricca di un centro storico che i turisti
vengono a visitare in frotta. Ma, ancor più dell'evidente sforzo di riabilitazione del tessuto
urbano, ciò che mi ha colpito è la ricerca disciplinata di un'armonia cromatica delle case,
grazie alla gamma omogenea di colori, dal giallo ocra al rosso bordò, oppure i tenui pastelli dal
verde pistacchio all'azzurrino, che trasformano l'insieme delle facciate nella tavolozza di un
pittore.
(Questa veduta mi richiama, sia pure in proporzioni ridotte, la cittadina provenzale di
Roussillon, appollaiata su un'altura del Lubéron, e che vi consiglio di scoprire).
I lavori di abbellimento non sono opera del caso, è chiaro che i varzesi c'entrino per qualcosa.
È qui che spunta la perplessità di cui parlavo all'inizio, e che dà lo spunto a queste
divagazioni: come si spiega questa insolita manifestazione di civismo, questa solidarietà sia
pure di facciata- è il caso di dirlo- quando, per il resto, i varzesi ostentano di apparire gli
irriducibili individualisti di sempre?
Quando penso ai varzesi, almeno quelli della mia generazione, mi si presenta un'immagine
contraddittoria.
Presi individualmente, sono dei personaggi sorprendenti, spesso animati da interessi e passioni
che non avresti mai sospettato a prima vista. Quando tuttavia si ritrovano in compagnia, ecco che
quelle singolari personalità si lasciano risucchiare dal conformismo dell'ambiente e che rispunta
allora il VARZESE archetipo: disincantato, scettico, pregiudizialmente predisposto alla
denigrazione, incline a irridere ogni iniziativa che tenda a cambiare le cose, viveur a
scartamento ridotto per cui niente vale più di una buona mangiata.
Ora, è chiaro che tale rappresentazione è falsa, perché contraddetta, per esempio, dall'esistenza
stessa e dal dinamismo di Varzi Viva ma, soprattutto, dal fatto che i varzesi girano il mondo,
mettono in piedi imprese audaci, si distinguono per la loro intraprendenza, producono campioni
sportivi e in ogni modo, non valgono meno degli altri.
Ma, ciò nonostante, tendono, per qualche ragione oscura, ad apparire peggiori di quanto non siano
in realtà, quasi si vergognassero di ammettere che stanno dentro la norma e rispettano le regole
del gioco civile. Quale strana ritrosia, quale tortuoso impulso all'auto-denigrazione si cela
dietro questa maschera?
Vorrei verificare con te- e con voi di Varzi Viva- la fondatezza di queste mia impressioni.
Se si rivelassero false, sarò evidentemente pronto a far ammenda onorevole, e a sturare una
bottiglia di champagne con quanti si sentissero lesi nella loro rispettabilità.
Se, per contro, esse fossero condivise, varrebbe allora la pena di andar più in là e di cercare
di capire perché tale dissociazione si produca, e a che cosa sia dovuta. E qui, naturalmente, i
primi ad essere interpellati dovrebbero essere i varzesi stessi- quelli, almeno, disposti a
uscire dalla loro ostentata nonchalance- non foss'altro per smentire questo presuntuoso
concittadino che pretende di giudicarli pur essendosene andato da quasi mezzo secolo.
Nino Chiappano
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