Associazione Culturale VARZI VIVA
Il trenino che partiva da Voghera
di Claudio Rollandi (dal Notiziario N° 2)


Ferrovia
La vecchia stazione ferroviaria di Varzi

Manarola (Cinqueterre) - Al mio paese, noi della classe 1948 siamo stati gli ultimi ad essere partoriti in casa, con l'assistenza della levatrice. I nati nelle annate successive hanno visto la luce nell'ospedale di La Spezia e quindi già prima di nascere erano riusciti a farsi un bel viaggetto in Treno: da Manarola, nelle Cinqueterre, alla Stazione Centrale di La Spezia e poi, da lì fino all'Ospedale, in autobus, o in taxi nei casi urgenti.
Per noi, invece, nati in casa, il Treno è rimasto per i lunghi anni dell'infanzia un grande oggetto di desiderio, unico cordone ombelicale del nostro piccolo paese con il resto del mondo, quando la strada asfaltata non era stata ancora costruita.
Il nostro piccolo paese era (ed è) tagliato in metà dalla linea ferroviaria Genova-Roma. Costruita ad un binario negli anni '70 del secolo scorso, e raddoppiata in questo dopoguerra, ha contribuito, insieme con la contemporanea costruzione dell'Arsenale Militare Marittimo di La Spezia, alla decadenza della viticoltura, in quanto aprì i collegamenti di queste terre con il resto del mondo, e così gli uomini di questi paese, da contadini cominciarono a diventare ferrovieri, "arsenalotti", impiegati.
Per noi, bambini nati in casa, un viaggio in Treno era rimasta una grande rara emozione fino agli anni dell'adolescenza, in cui, finite le elementari nel paesello e iniziando le medie in città, entravamo a far parte dell'universo dei pendolari e, improvvisamente, il fatto di essere in grado di prendere il Treno da soli ci faceva sentire quasi uomini.
E non solo il Treno, ma tutti gli Uomini che facevano parte dell'organizzazione delle Ferrovie avevano la nostra ammirazione ed il nostro rispetto: dal Capostazione col berretto rosso e dai numerosi filetti dorati, fino all'uomo che, con uno strano martello dal manico esageratamente lungo, passava in rassegna le ganasce dei freni di tutti i vagoni, martellandone qualcuna ogni tanto.
Anche il Capostazione della nostra piccola stazione in cui fermavano solo i treni "accellerati", pur non avendo filetti dorati sul suo berretto, faceva parte, insieme al medico condotto, al parroco e al brigadiere dei carabinieri, della ristretta cerchia delle autorità (di paese).
Il mio nonno materno, operaio delle Ferrovie, morì in servizio, sotto uno dei primi bombardamenti alleati sulla città di La Spezia e la mia nonna materna Angiolina, giovane vedova, si ritrovò a dover crescere due figli: la mia (futura) madre, allora meno che ventenne, e suo fratello, più giovane di lei di cinque o sei anni. La mia (futura) madre nell'immediato dopoguerra si sposa con il mio (futuro) padre, appena entrato come impiegato nel Municipio di La Spezia e così si "sistema".
Mio zio, invece, all'inizio degli anni '50 si trovò a far parte della folta schiera dei giovani disoccupati del paese; molti suoi coetanei erano addirittura emigrati alle Americhe, altri, e mio zio con loro, andarono a Milano per lavoro, al seguito di due compaesani che avevano <> alla Dalmine. Ma la paga era scarsa per mantenersi in una Milano e soprattutto il lavoro era duro e pericolosissimo.
Mia nonna Angiolina, dal suo stato di vedova di un ferroviere morto in servizio, sperava per il suo figlio maschio un posto nelle Ferrovie e con l'aiuto di uno dei suoi otto fratelli, anziano macchinista delle Ferrovie a Savona, trovò la strada giusta (forse aiutandosi anche con qualche bottiglia di Sciacchetrà delle Cinqueterre) Quando seppi che il mio zione stava per entrare nelle Ferrovie come allievo macchinista, per me fu uno dei giorni più belli della mia prima infanzia, perché ero certo che prima o poi mi avrebbe fatto salire sul posto di guida della Locomotiva anche se era una cosa vietata dal Regolamento.
Mio zio, assegnato al Compartimento di Genova, i suoi primi Treni li portò sulla linea Genova-Milano e, quando nei giorni di riposo veniva a casa, ci raccontava della difficoltà di portare il Treno in mezzo alla nebbia, di cui noi non avevamo alcuna esperienza.
Una sera, in uno dei suoi racconti, citò il Deposito della Stazione di Voghera; mia nonna lo interruppe dicendo, con un certo tono di orgoglio, che lei, durante la guerra, fino a Voghera c'era stata, anzi era andata ancora più avanti, perché lei e le sue compagne di viaggio avevano preso un certo Trenino che partiva appunto da Voghera ed erano arrivate fino all'ultima Stazione di quella Ferrovia.
Io (un po' saputello) intervenni sostenendo che una ferrovia non poteva avere un'ultima Stazione se non a Torino o a Roma o forse a Milano; mio zio mi spiegò, però, che esistevano spezzoni di linee ferroviarie secondarie che collegavano alle linee principali alcune piccole città come ad esempio Salsomaggiore vicino a Parma, Ormea sopra Savona, Torre Pellice e Chieri vicino a Torino, Chioggia vicino a Venezia, Volterra in Toscana, eccetera.
Quando la televisione non aveva ancora invaso le nostre famiglie, i racconti serali dovevano necessariamente prolungarsi nei dettagli per arrivare all'ora giusta per andarsene a letto e quindi mia nonna fu costretta a raccontarmi che cavolo fosse andata a fare oltre Voghera in piena seconda guerra mondiale.
- Ma come! non lo sai che durante la guerra andavamo lassù per roba?
-Cosa significa andare per roba? - dico io - - Insomma, andavamo a cercare roba da mangiare e i ragazzi come tua madre e tuo zio (che in più non stavano mai fermi) avevano un appetito spaventoso.
- E perché andavate voi donne? Gli uomini ne avrebbero portato di più.
- Io ero già vedova, ma neanche le altre potevano mandarci gli uomini, perché erano quasi tutti o in guerra o a lavorare e i giovani abili potevano essere presi nei rastrellamenti dai tedeschi o dalle brigate nere. Noi ci portavamo via un po' di soldi, del sale e dell'olio (chi l'aveva) e così riuscivamo a portare a casa della farina bianca o di granturco; alcune arrivavano fino alle zone dove facevano il riso. Figurati che una volta, tornando indietro, a Riva Trigoso, subito dopo Sestri Levante, i tedeschi ci presero tutta la roba che eravamo riuscite a trovare.
Quando, dopo alcuni decenni, da fidanzato, negli anni '70 mi sono ritrovato una (futura) suocera, nata in quella cittadina che stava intorno all'ultima stazione di quella Ferrovia che partiva da Voghera, ho avuto la certezza matematica che mia nonna Angiolina (spentasi, poi, di vecchiaia, in piena tranquillità, alla buona età di 93 anni) sia arrivata, sotto le bombe e con intorno tedeschi e brigate nere, fino alla Terra di Varzi a cercar farina per il pane dei suoi figli. Quando, poi, in più, vengo a sapere che mia suocera aveva un padre fornaio in Varzi, allora sono colto dalla speranza che ci siano buone probabilità che la figlia di mia nonna sia riuscita a mangiare del pane fatto con della farina uscita da quel forno di Varzi. E mi piace immaginare che non debba essere stata proprio quella farina a finire nelle pance dei tedeschi a Riva Trigoso e se così fosse (malauguratamente) avvenuto, sarebbe stato bello se gli fosse andato di traverso quel boccone di pane ai tedeschi... li mortacci loro!...però, in fin dei conti, poveracci, chissà se sono arrivati a 93 anni, loro.
Due, comunque, sono gli indizi che rafforzano la mia sperata ipotesi di avere acquisito attraverso il sangue materno qualche traccia di farina proveniente da quel forno di Varzi:
- Il primo è un indizio solo soggettivamente valutabile, ossia: il naturale, immediato, istintivo, viscerale (appunto) attaccamento a questa Terra di Varzi che mi ha colto fin dalla prima volta che ci sono entrato (ormai più di vent'anni fa), ed il senso di completo agio che provo ogni volta che ci torno;
- Il secondo, invece, è un indizio oggettivo, quasi una prova storica, derivante dalla testimonianza che direttamente mi ha reso uno degli anziani fornai di quel forno che - allora ragazzo, ultimo in una nidiata di fratelli e sorelle orfani - in una notte qualsiasi dell'ultima guerra, a (troppo) tarda ora, (ri)entrando a casa sua reduce (!) da qualche piacevole serata con i suoi amici, camminando all'indietro sulla neve per non lasciare nel mattino seguente all'occhio della severa capofamiglia sorella maggiore alcuna traccia di rientro abusivamente tardivo, si trovò nel buio androne di casa sua, improvvisamente colto alle spalle da un mucchietto di donne accovacciate a terra: stringendo dei fagotti e tremando, sicuramente di freddo e probabilmente anche di paura, stavano aspettando lì l'(ormai prossimo) albeggiare per (ri)prendere il primo Trenino verso Voghera.