Associazione Culturale VARZI VIVA
Sulla strada dei banditi
e dei briganti



Viaggiare era un tempo - anche attraverso le strade ed i sentieri del nostro Appennino o della nostra pianura- un'avventura piena di rischi.
E non solo per i pericoli del soprannaturale, peraltro sempre in agguato nelle notti di luna e all'interno dei boschi cupi e misteriosi, ma per la presenza molto più concreta di banditi e tagliagole.
Costoro, spesso con la complicità o il tacito assenso dei potenti feudatari, sempre in lotta fra di loro, vivevano di ricatto o di rapina ai danni dei viandanti, specie se stranieri e mercanti.
Pare addirittura che, sia i Malaspina sia i signori di Gavi, non solo non si siano impegnati a fondo a combattere il fenomeno, ma abbiano partecipato ad esso in prima persona.
Significativo è, in questo senso, un episodio che risale al 1155 quando il marchese Obizzo Malaspina - non ancora passato dalla parte del Barbarossa, è impegnato nella difesa di Tortona, assediato dalle truppe imperiali.
Secondo una cronaca del tempo egli tenne prigioniero un nobile bizantino al fine di ottenere un riscatto.
Ciò non sorprende più di tanto. Infatti il casato dei Malaspina, che tanto ha contato nella storia della nostra zona, era uso a simili prodezze, ritenendo un diritto esigere un pedaggio a quanti attraversavano le terre da esso controllate e depredare i nemici.
I Malaspina, come è noto, controllavano un territorio molto vasto che si spingeva fino a Parma e con esso la val di Magra e il passo della Cisa. Tale area era povera di risorse ma ideale per le imboscate.
Tra le più famose vi è quella che nel 1135 ebbe come vittima l'abate di Cluny e alcuni confratelli di ritorno dal Concilio di Pisa che vennero assaliti e spogliati di tutto.
Anche allora si pensò che i marchesi non fossero del tutto estranei all'azione. Pare poi che lo stesso Obizzo Malaspina - che dodici anni più tardi era passato dalla parte del Barbarossa - mentre accompagnava l'imperatore in salvo attraverso gli impervi sentieri dell'Appennino abbia confessato al suo signore di vivere di rapina!
Per quanto riguarda i signori di Gavi, neppure loro disdegnavano il brigantggio.
Per esempio il marchese Guglielmo aveva fama di aggredire e taglieggiare i mercanti tortonesi che passavano per la valle Scrivia.
Costoro, ad un certo punto, furono talmente esasperati che - siamo nel 1185 - si appellarono all'impertore. In seguito, sempre i marchesi di Gavi - siamo nel 1197 - risultano impegnati ad infestare le strade e rubare le merci ai commercianti genovesi ed astigiani.
E' rimasto famoso il fatto che ebbe come protagonisti due ambasciatori genovesi diretti in Francia. Essi furono fatti prigionieri da Domicella, moglie del marchese Alberto d'Incisa, vicino a Capriata. La rapitrice intendeva ottenere un riscatto lucroso per far fronte ai molti debiti della casata ma l'operazione non riuscì.
I genovesi infatti non cedettero; anzi, minacciarono di intervenire con un esercito, cosicché le due vittime vennero liberate.
Il problema della sicurezza delle strade era molto sentito. Infatti i vari documenti dell'epoca (es. il trattato di alleanza tra Alessandria e Genova) segnalano l'esigenza di difendere i mercanti lungo il percorso Pavia-Gavi che risultava particolarmente a rischio.
Questi banditi si fecero sempre più numerosi man mano che si incrementavano gli scambi commerciali e alcuni di loro sono passati agli annali.
Tra questi Gurcio Tignoso che, nel 1207, divenne noto a Gavi rubando ed uccidendo; oppure Rainero Granducio di Capriata che, nel 1256, calò con la sua banda su alcuni mercanti piacentini diretti a Genova e li derubò di tutto.
Sulla strada di Pavia invece, ai tempi di Barbarossa, è molto attivo il Bagnagatta che è solito assalire i soldati imperiali. Infine venne condotto al patibolo senza un piede, troncato all'atto dell'arresto.
Neppure i conventi erano immuni dalle ruberie, specie se sorgevano in luoghi isolati come il convento cistercense di Santa Maria di Banno, situato sui monti sopra Tagliolo, abbandonato a metà '400. Allo stesso modo, l'abbazia di San Pietro a Vendersi, in val Borbera, alla fine del X secolo era caduta in rovina a seguito delle continue ruberie.

A cura di Silvana Abbiati